Le riflessioni che seguono traggono spunto dalla sentenza n. 4335/19 del 16.07.2019 emessa dalla Commissione Tributaria Regionale del Lazio, nella quale si è escluso che il contribuente, nel ricorso avverso il diniego di autotutela opposto su una non impugnata “comunicazione di irregolarità” (c.d. “avviso bonario") ex articolo 36 bis D.P.R. 600/1973, possa sindacare la legittimità e la fondatezza della pretesa tributaria contenuta nella comunicazione medesima.
A detta dei giudici di appello, la natura discrezionale dell’esercizio del potere di autotutela consentirebbe un sindacato giurisdizionale sulla legittimità del provvedimento di “diniego” esclusivamente per ragioni di rilevante interesse generale, non potendo in nessun caso costituire l’impugnazione del diniego di autotutela un mezzo giurisdizionale per sollecitare che il giudice tributario esamini il merito del rapporto tributario dedotto nell’atto di imposizione tributaria.
La soluzione giuridica fornita dalla CTR Lazio non è condivisibile, in quanto applica alla fattispecie, concernente un atto insuscettibile di cristallizzare il rapporto tributario, il nutrito orientamento della giurisprudenza di legittimità concernente l’impugnazione di un “diniego di autotutela” opposto su atti impositivi ormai definitivi, secondo cui «nel giudizio instaurato contro il rifiuto di esercizio dell’autotutela può esercitarsi un sindacato … soltanto sulla legittimità del rifiuto, in relazione alle ragioni di rilevante interesse generale alla rimozione dell’atto che giustifichino l’esercizio di tale potere e non sulla fondatezza della pretesa tributaria, atteso che, altrimenti, si avrebbe un’indebita sostituzione del giudice nell’attività amministrativa o un’inammissibile controversia sulla legittimità di un atto impositivo ormai definitivo» (tra le tante:Cassazione n. 24032/2019, n. 19331/2019, n. 21146/2018, n. 25705/2016, n. 16769/2016, n. 16097/2009, n. 9669/2009, n. 3698/2009 e n. 7388/2007).
I limiti che la Suprema Corte pone al sindacato giurisdizionale sul “diniego di autotutela” valgono, dunque, per gli atti suscettibili di consolidarsi in caso di omessa impugnazione, essendo l’impugnabilità espressamente prevista dall’articolo 19, comma 1, D.Lgs. 546/1992.
Viceversa, laddove la pretesa impositiva sia contenuta in un atto impositivo non menzionato nell’anzidetto articolo, sembra corretto ritenere che i suddetti limiti non valgano.
Ciò in quanto, per gli atti non espressamente qualificati come “atti impugnabili”, il ricorso dinanzi al giudice tributario è meramente facoltativo, con l’effetto, da un lato, che l’omessa impugnazione non può determinare la cristallizzazione del presunto credito tributario (cfr., con riferimento all’“avviso bonario”, Cassazione n. 1230/2020, n. 33055/2019, n. 18610/2019, n. 11471/2018, n. 26129/2017, n. 27494/2016 n. 21045/2007 ) e, dall’altro, che il ricorso avverso il relativo “diniego di autotutela” non costituisce un mezzo giurisdizionale sostitutivo di quello ordinario, proprio perché non dà ingresso ad una controversia sulla fondatezza di un atto impositivo oramai definitivo.
Non solo, in un’interpretazione costituzionalmente orientata, la discrezionalità che l’Ente impositore esercita nel potere di autotutela è un limite ragionevole al sindacato del giudice tributario solo se la pretesa impositiva è consolidata, dovendosi, esclusivamente in tale ipotesi, tutelare il valore costituzionale della certezza e della stabilità dei rapporti giuridici.
Viceversa, ove il diniego di autotutela intervenga su atti impositivi insuscettibili di divenire definitivi in caso di omessa impugnazione, non sussiste l’esigenza di tutelare il principio della stabilità e certezza dei rapporti giuridici.
Ne consegue che opporre la discrezionalità dell’esercizio del potere di autotutela, per impedire che il giudice tributario possa sindacare l’arbitrarietà del diniego di autotutela impugnato esaminando la fondatezza della pretesa tributaria, materializzerebbe una sproporzionata compromissione della tutela giurisdizionale del contribuente, andando a ledere in maniera irragionevole i principi costituzionali del diritto di difesa ( articolo 24, commi 1 e 2, Cost. ) e del diritto alla tutela giurisdizionale avverso gli atti della pubblica amministrazione (articolo 113, commi 1 e 2, Cost.), con violazione altresì dei canoni costituzionali della “ragionevolezza” e della “proporzionalità” (tra le tante: Corte Costituzionale sentenze n. 467/1991, n. 220/2013, n. 108/2016, n. 200/2018, n. 20/2019 e n. 108/2019 ).
In tali casi, pertanto, la natura “discrezionale” del potere dell’Ente impositore di annullare in autotutela i propri provvedimenti (scelta legislativa non costituzionalmente obbligata – cfr. Corte Cost., sentenze nn. 81/2017 e 75/2000 ) dovrebbe regredire rispetto all’effettiva tutela dei diritti costituzionali di difesa e dell’azione giurisdizionale avverso gli atti della pubblica amministrazione.
Ciò è altresì coerente con il principio di concentrazione della tutela giurisdizionale e, dunque, con la ragionevole durata del processo, considerato che il contribuente ha comunque diritto a impugnare nel merito il successivo atto impositivo suscettibile di consolidarsi.
Del resto, la Sezione tributaria della Corte di Cassazione, nell’ ordinanza 16.12.2019, n. 33055, ha riconosciuto il diritto del contribuente di presentare istanza di rimborso dei versamenti effettuati a seguito della notifica di un “avviso bonario” emesso ai sensi dell’ articolo 36 bis D.P.R. 600/1973 e di impugnare il conseguente diniego, “essendo l’impugnazione di detto avviso solo facoltativa (onde la mancanza della stessa non può comportare la cristallizzazione del credito)”.
Ne consegue che, allo stesso modo, deve essere riconosciuto al contribuente anche il diritto di contestare la debenza del debito tributario risultante dall’anzidetto avviso mediante impugnazione del relativo “diniego espresso di autotutela”, pena una palese violazione anche del principio costituzionale di eguaglianza.